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Francesca Sian

La nostra esperienza in Tanzania... alla ricerca dell'Umanità

Ciao, da dove possiamo iniziare? Intanto ci presentiamo dai. Siamo cinque ragazze di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Non tutte ci conoscevamo bene prima di partire, ma è bastato un attimo per riscoprirci sorelle, in una Terra che unisce i cuori. Sì, l’Africa fa proprio questo.

Siamo partite il 17 luglio e, per tre settimane, abbiamo vissuto una meravigliosa esperienza missionaria in Tanzania, accompagnate dal fantastico responsabile di Missio, Alex Zappalà. È stato uno di quei viaggi che auguriamo a tutti di fare almeno una volta nella vita. Un viaggio che ci ha aperto gli orizzonti di un nuovo mondo, di un nuovo stile di vita. Uno stile che ci stiamo impegnando a mantenere anche qui, tornate a casa, nonostante sia molto più complicato. Il ritorno è una parte importantissima del viaggio. Non c’è viaggio senza ritorno. Come siamo tornate? Irrimediabilmente cambiate. Ora la nostra vita ha un gusto diverso, ha più sapore. Siamo tornate con la valigia piena di emozioni, ricordi, sorrisi, nomi e tante promesse. Il ritorno più difficile è proprio quello del cuore.

Siamo state accolte da una Terra dove l’ospite è sacro. La Terra del “Karibuni” (benvenuti)! Una Terra che è pronta a donarti anche quel poco che ha, quell’ultimo pugno di riso che può permettersi a fine giornata. Ad aspettarci c’erano donne e uomini che potevano aver mille motivi per voltarci le spalle, ma che ci hanno sempre fatte entrare nelle lore case, sedere alle loro umili tavole. Tutto ciò che volevano era mostrarci le cose più belle della loro casa. Perché casa mia è anche tua. “Wageni” in swahili significa “ospite” e non potrà mai essere tradotto con straniero.

Abbiamo visto tantissime realtà diverse. Ci siamo fatte trasportare dalla frenesia di città come Dar es Salaam e Iringa. Città colorate di mercati e bancarelle lungo le strade, ma anche annebbiate dallo smog del traffico. Luoghi che portano avanti ideali di progresso, di sviluppo, con qualche zona sfacciatamente ricca, ma che “dietro le quinte” nasconde ancora tanta povertà. Tuttavia, i luoghi dove abbiamo ritrovato quella sensazione di casa sono stati i villaggi sperduti nella savana e le missioni dove ci hanno accolte. Durante la prima parte del viaggio, siamo state alla missione di Mapogoro, in provincia di Iringa, dov’è sorta la prima chiesa dedicata a Maria Teresa di Calcutta. È stato padre, anzi Baba, Salvatore Ricceri a dare vita a tutto questo. Sacerdote missionario da anni, Baba ha fatto costruire scuole là dove si distendevano steppe fittissime, ha riunito la gente impoverita dei villaggi creando delle comunità forti e vive. Oggi continua ad aiutare gli ultimi, come ha sempre fatto. Regala speranza e amore gratuito, come lo è quello di Dio per tutti noi. Baba non è di molte parole, ma la prima cosa che ci ha detto ha reso ancora più chiara la nostra missione. “Siete in Africa alla ricerca dell’uomo, un uomo che è alla genesi, solo così non tornerete vuote”.

Ok…ma quindi? Cos’avete fatto voi? Questa è la domanda più frequente che ci hanno chiesto, nonché una delle più ostiche. Poco e niente, di fatto. Non siamo partite per fare o dare concretamente qualcosa. Come ci ha spesso ripetuto Alex, la missione sarebbe andata avanti tranquillamente anche senza di noi. Non ci definiamo eroine missionarie, il nostro obbiettivo non era salvare quei villaggi. Impossibile. Anzi, sono stati più loro a salvare noi, anche se c’è dell’incredibile. Ma se può chiarirvi le idee abbiamo pitturato, per alcune mattine, le pareti di una scuola secondaria nel villaggio di Kitanewa, costruita grazie a Baba Salvatore. Ma non è questo il fine ultimo della missione. Provate per un attimo ad abbandonare la vostra logica occidentale del fare, per comprendere meglio la logica dell’essere e dello “stare” con l’altro. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo “sentito” l’altro, ci siamo ritrovate nell’altro, perché tutti noi siamo le persone che incontriamo (ubuntu). Siamo partite per vivere l’incontro, per ritrovare un’umanità autentica, per dare valore al nostro tempo, che non significa occuparlo da mille impegni, ma viverlo intensamente come se il domani non ci riguardasse. Passiamo tutta una vita pensando al futuro, produciamo in continuazione per accrescere le nostre ricchezze. La nostra società è così, che ci piaccia o meno. In quest’altra parte di mondo, invece, la gente non accumula, non si affanna, semplicemente perché non ha ricchezze da proteggere. In generale il tempo è vissuto diversamente, anzi è semplicemente vissuto, giorno dopo giorno. Per noi non è mai stato tempo perso, anche quando abbiamo passato pomeriggi interi a camminare senza una meta, a giocare a calcetto con i Masai o quando a tavola nessuno diceva nulla, si stava in totale silenzio. In Tanzania è così, non si parla troppo, anzi i Masai sussurrano sempre tra di loro. A noi il silenzio fa paura, è così forte che ci fa “tremare” dentro e per questo ci ostiniamo sempre a colmarlo in qualche modo. Per loro, invece, i momenti di silenzio sono importati per sentire la presenza di Dio. Loro lo sanno “abitare” il silenzio e, fidatevi, è bellissimo.

Tutto questo per farvi capire che ci siamo immerse in una cultura completamente differente dalla nostra. Abbiamo incontrato ogni giorno persone che vivono la vita come una danza, e il ritmo è dettato dalle corde del cuore. Bagamoyo è un piccolo paese sulla costa dell’Oceano Indiano e letteralmente si traduce in “cuore ferito”. In questo luogo arrivarono i primi schiavi dalla tratta araba e, successivamente, anche i primi missionari. Perché vi diciamo questo? Bagamoyo è un esempio di come una ferita può trasformarsi in feritoia, per lasciar passare la luce della salvezza. Tutti noi possiamo avere il nostro “Bagamoyo”, una ferita che ci portiamo dentro e che può essere guarita dall’amore. L’amore missionario ci ha spinte a partire, a lasciare casa per trovare casa nelle terre sacre dell’Africa, sempre in punta di piedi. Non siamo scappate, amare è lasciarsi non possedere per poi ritrovarsi. Il nostro viaggio è stato incontro, incontro di sguardi che ti penetrano dentro; è stato interiore, alla scoperta delle ricchezze più nascoste di noi stesse. Un viaggio che non ha né inizio né fine, ma che continua qui.

Il P.E.M. (percorso esperienze missionarie) è stato fondamentale per partire preparate, con la consapevolezza di dover abbandonare i nostri punti di vista, i nostri parametri di giudizio, per indossare degli “occhiali” diversi. Perché non c’è mai una sola ragione. Si sa, la diversità fa paura, ma non è altro che ricchezza. Una ricchezza che sa di umanità, di vita. È un percorso che consigliamo a tutti, perché ti insegna a guardare il viaggio da un’altra prospettiva. Fatevi coraggio, “cor-agere”, agite con il cuore, perché fare il viaggio e non innamorarsi equivale a non aver viaggiato. E fidatevi…ci sono tante meraviglie lì fuori.

Ora tocca a voi, non dovete far altro che iscrivervi al PEM! La missione vi aspetta. Ma ricordatevi, non serve sempre andare lontano, perché non importa quanto cammini, ma come cammini, ogni giorno.

Asante Sana, Tanzania! 

Francesca Sian

Diocesi Concordia - Pordenone 

Francesca Sian